Il nobel

Sono le prime ore del mattino del 10 novembre 1938. Un telefono che squilla la mattina presto ha un suono speciale. È improvviso, inaspettato, stridulo e perentorio.

È così che Laura ricorda quella giornata. Fu infatti lei a rispondere al telefono…
“Pronto? Casa del professor Fermi.”
“Salve, desidero avvertirla che il professor Fermi sarà chiamato al telefono da Stoccolma oggi pomeriggio alle sei.”
“Svegliati Enrico! Stasera, alle sei, ti chiameranno al telefono da Stoccolma!”

Capii subito; una telefonata di questo genere può voler dire il premio Nobel. Ma non c’è tempo per rallegrarsi. Il viaggio in Svezia è l’occasione per realizzare un piano al quale lavoravamo da mesi con grande discrezione, per il timore che il regime non ci facesse andar via: lasciare l’Italia ed emigrare negli Stati Uniti. Le leggi razziali erano state promulgate e il regime fascista diventava ogni giorno più pericoloso. Laura, era infatti ebrea e il padre, sebbene ammiraglio della Marina in pensione, sarebbe poi morto in un campo di concentramento.
Le ore del pomeriggio trascorsero con lentezza insopportabile poi finalmente arrivò la telefonata tanto attesa. In linea c’era il segretario dell’Accademia delle Scienze di Stoccolma che mi annunciava il conferimento del premio e ne leggeva la motivazione.

“Al professor Enrico Fermi di Roma per la sua identificazione di nuovi elementi radioattivi prodotti con bombardamento di neutroni e la scoperta fatta in relazione a questo lavoro delle reazioni nucleari effettuate dai neutroni lenti.”
Il dado era tratto: la Svezia sarà solo una tappa del nostro viaggio verso gli Stati Uniti. Nonostante i successi scientifici, la sopravvivenza del nostro gruppo nel clima culturale politico dell’Italia fascista era diventata sempre più difficile a causa della mancanza di adeguate prospettive di ricerca e di finanziamento e dopo la promulgazione delle leggi antisemite che colpivano tutti i cittadini italiani di origine ebraica privandoli dei più elementari diritti civili: non solo Laura era ebrea, ma anche alcuni collaboratori come Bruno Pontecorvo ed Emilio Segrè.
Si arriva così al 6 dicembre, giorno della partenza. Alla stazione ci sono Rasetti e Amaldi con la moglie Ginestra e il commiato ha un solo significato: è la fine di un’epoca. Del resto, già da tempo il gruppo dei “Ragazzi di via Panisperna” si era assottigliato sia per ragioni personali sia accademiche: Majorana era scomparso nella primavera del 1938, altri, invece, si erano trasferiti all’estero.

Quando in Italia fu proiettata nei cinema la registrazione della cerimonia di assegnazione del Nobel si scatenarono critiche per  il mio atteggiamento, giudicato poco patriottico. Avevo deciso di non indossare l’uniforme da Accademico d’Italia e di non fare il saluto fascista.
Con Laura e i nostri due figli, Giulio e Nella, ci imbarcammo su un piroscafo diretto a New York. Ufficialmente si trattava di un sabbatico di sei mesi, in realtà avevamo l’intenzione di trasferirci definitivamente negli USA.

E proprio in quei fatidici giorni un gruppo di fisici tedeschi fece una scoperta sensazionale.

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