Il 1934 è l’anno in cui i ragazzi di Corbino acquistarono, come squadra, fama internazionale. Fermi e gli altri divennero gli esperti mondiali dell’uso dei neutroni come proiettili per colpire campioni di diverse sostanze e renderle radioattive.

I Joliot-Curie scoprono la radioattività artificiale

Tutto era cominciato a Parigi, in gennaio, con la scoperta della radioattività artificiale da parte dei fisici francesi Irène Curie, figlia di Marie Curie, e suo marito Frédéric Joliot. I due coniugi avevano bombardato una foglia di alluminio con le particelle alfa emesse da una sostanza naturale radioattiva. La lamina di metallo era diventata a sua volta una sorgente emettitrice di altre particelle – i positroni, corpuscoli con la stessa massa degli elettroni, ma carica elettrica opposta. L’alluminio era diventato, cioè, radioattivo.

Ecco come Laura Capon, moglie di Enrico Fermi, racconta la scoperta nella sua autobiografia “Atomi in Famiglia

“Nel gennaio del 1934 i fisici francesi Frédéric Joliot e Irène Curie, sua moglie, annunciarono di avere scoperto la radioattività artificiale. Studiando il comportamento dell’alluminio bombardato con particelle alfa veloci, essi notarono che […] entro pochi minuti emetteva a sua volta particelle (positroni) comportandosi come una sostanza radioattiva. Non soltanto l’alluminio ma anche alcuni altri elementi leggeri si trasformavano in sostanze radioattive, quando venivano bombardati da particelle alfa. Su elementi più pesanti le particella alfa non producevano alcun effetto.

Le particelle alfa sono nuclei di elio carichi positivamente. La carica positiva ne limita l’efficacia come proiettili nucleari per ragioni di doppia natura: da una parte l’attrazione esercitata su di essi dagli elettroni, che circondano tutti i nuclei, le rallenta così rapidamente che ben presto esse si fermano del tutto. Hanno dunque una probabilità assai scarsa di incontrare un nucleo sul loro breve cammino. D’altra parte, se un incontro avviene effettivamente, la forza dell’urto è grandemente ridotta perché sia il proiettile alfa sia il nucleo bombardato sono carichi positivamente e quindi si respingono con una forza che diventa grandissima quando la distanza tra i due corpuscoli si è ridotta a esser piccolissima.

Il numero degli elettroni e la carica positiva del nucleo sono maggiori negli elementi più pesanti, fatto questo che spiega perché il bombardamento con particelle alfa non ha effetti sugli elementi pesanti.”

Neutroni come proiettili

Venuto a conoscenza della scoperta dei coniugi Joliot-Curie, Fermi decise immediatamente di usare i neutroni come proiettili al posto delle particelle alfa. Il neutrone, infatti, avendo carica elettrica nulla, non viene né rallentato dagli elettroni che circondano gli atomi, né respinto dal nucleo atomico. Penetra più facilmente e può produrre così diverse reazioni all’interno del nucleo stesso: reazioni nucleari.

Fermi intuì subito che i neutroni possono essere usati più efficacemente come proiettili per colpire il nucleo e indurre reazioni nucleari. Come mai fino a quel momento nessuno aveva pensato di usare il neutrone come proiettile per sondare la struttura nucleare?

Il motivo era l’estrema difficoltà tecnica di produrre sorgenti di neutroni, come spiega ancora Laura Capon:

“Venuto a conoscenza dei coniugi Joliot, Fermi decise di tentare l’uso dei neutroni per produrre la radioattività artificiale. I neutroni non hanno carica elettrica e non vengono quindi attratti dagli elettroni, né respinti dai nuclei: percorrono dunque nella materia un cammino assai più lungo che non le particelle alfa, pur conservando velocità ed energia più elevate; hanno perciò una probabilità maggiore di incontrare un nucleo e di urtarlo con tutta forza. Contro questi vantaggi indiscutibili i neutroni presentano un grosso inconveniente: a differenza delle particelle alfa non sono emessi spontaneamente da sostanze radioattive, e per ottenerli bisogna bombardare alcuni elementi con particella alfa; in questo modo si ottiene un solo elettrone per ogni centomila particelle alfa usate. Questo bassissimo rendimento faceva dubitare dell’opportunità di usare elettroni. Non c’era che provare, e Fermi decise di diventare un fisico sperimentale.”

Il quaderno di laboratorio

Nel 2002, gli storici della fisica Nadia Robotti e Francesco Guerra hanno ritrovato il quaderno di laboratorio dove Enrico Fermi annotò giorno per giorno il lavoro che, da solo, svolse in quei primi mesi del 1934. Una copia anastatica di questo quaderno è esposto ora in questo museo, con il nome di “Quaderno di Irpino”, per il luogo dove i due storici l’hanno ritrovato: la Biblioteca dell’Istituto Tecnico per Geometri “Oscar D’Agostino”, ad Avellino.

L’accurata ricostruzione storica differisce dai ricordi che i vari ricercatori di via Panisperna hanno successivamente narrato. La memoria dei protagonisti, in questo caso, si rivela fallace e non rende conto del modus operandi che al tempo adottò Enrico Fermi, ben descritto invece nel suo quaderno di laboratorio.

L’esperimento. Irraggiare con i neutroni gli elementi della tavola periodica

Nel mese di marzo 1934, Fermi si tuffò nel lavoro sperimentale in solitudine, dedicandosi con caparbietà a mettere a punto i dispositivi necessari, in particolare i contatori Geiger-Müller, che dovevano servire per registrare il passaggio di particelle cariche o di fotoni.

Una volta approntato l’apparato sperimentale, Fermi cominciò a irraggiare con i neutroni gli elementi della tavola periodica. Non partì con il bombardare quelli più leggeri, come raccontarono in seguito erroneamente Amaldi, Segrè e Rasetti, ma al contrario, iniziò dal platino (numero atomico pari a 78) e via via risalendo la tavola periodica verso i nuclei a numero atomico inferiore.

La scelta di Fermi di incominciare a irraggiare con i neutroni un elemento pesante non era casuale. Era un modo di procedere che derivava in modo logico dalla sua teoria del decadimento beta, che aveva formulato appena qualche mese prima. Alla luce della teoria di Fermi, gli elementi pesanti della tavola periodica erano quelli che con maggior probabilità potevano subire un decadimento beta.

La teoria di Fermi prevedeva infatti che in un nucleo soggetto a decadimento beta un neutrone si trasforma in protone, con emissione di un elettrone.

Il numero di neutroni è maggiore negli elementi più pesanti della tavola periodica. Anzi, l’eccesso di neutroni  è sempre maggiore, più cresce il numero atomico, cioè il numero di protoni. Nel 1934 era già chiaro, infatti, che per tenere legati insieme sempre più protoni nel ristretto spazio nucleare e vincere la forza coulombiana repulsiva esercitata l’uno sull’altro, era necessario un congruo numero di neutroni. In base alla teoria del nucleo di Heisenberg-Majorana, su scala nucleare neutroni e protoni interagivano con intense forze di scambio attrattive, in grado di vincere la repulsione coulombiana tra protoni.

Era chiaro allora che per Fermi utilizzare come bersaglio un elemento con un numero atomico alto, e quindi con un grande eccesso di neutroni rispetto agli elementi leggeri, faceva aumentare la probabilità che avvenisse il decadimento beta.

Ecco spiegato perché Fermi cominciò a irraggiare con i neutroni il platino, un elemento pesante che aveva a disposizione in laboratorio.

Quando Fermi bombardò con i neutroni l’alluminio e il fluoro, il contatore Geiger-Müller registrò finalmente alcuni conteggi, segno che i nuclei bersaglio si erano quindi ‘attivati’. Era il 25 Marzo del 1934.

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